Archiv der Kategorie: TEXTE zum Film

OVERVIEW – INDEX: Press-Reviews and other Texts about the Film

deutsch:

PRESSEHEFT zum FILM mit einer Auswahl an Texten

Stimmen zum Film / more texts

taz-Artikel von Windried Hippen zu Film und Kinotour, 18. Juni 2015

Das einzige, was passiert. Ein Gespräch mit Philipp Hartmann über den Film – von Roger Koza

Jurybegründung der Filmbewertungsstelle FBW

Filmkritik von affektblog.de

Filmkritik von Jakob Hartmann

Filmbesprechung aus LERCHENFELD Nr. 20 – Newsletter der HfbK Hamburg

Ankündigungstext der Viennale 2013

Ankündigungstext der 10. Hamburger Dokumentarfilmwoche

english:

special mention in Olhar de Cinema Festival, Curitiba, Brazil – text by the jury

„…one of the wittiest and most innovative documentaries of the year“ – Article about The Art of the Real-Series

Article about The Art of the Real on mubi.com

Article about The Art of the Real in The L Magazine

Text from CPH:DOX – Catalogue

Text by Roger Alan Koza (FICUNAM Mexico)

Film Critique from Brooklyn

Text from Vancouver International Filmfestival Catalogue

español:

León y león – un cuento de Ignacio Agüero

Crítica de La VOZ de Córdoba, Argentina. Por Roger Koza

Crítica del diario HOY DIA de Córdoba, Argentina. Por Martin Iparraguirre

Lo unico que pasa. Entrevista con Philipp Hartmann. Por Roger Koza – Blog Con los ojos abiertos

Entrevista de Philipp Hartmann por Roger Koza en el Programa „El Cinematógrafo“ del Canal 10 (TV de Córdoba, Argentina)

Texto de Roger Alan Koza (FICUNAM Mexico)

Otros comentarios sobre “El tiempo pasa como un león rugiendo”

Crítica de comentandocine.com

português:

Resenha na Revista CINÉTICA

Resenha em „Simplista na Pista“

special mention in Olhar de Cinema Festival, Curitiba, Brazil – text by the jury

italiano:

Il tempo passa come un leone ruggente su FilmTv

Il tempo passa come un leone ruggente, un viaggio nella cronofobia – su Lineadiretta24.it

 

Il tempo passa come un leone ruggente, un viaggio nella cronofobia

Il tempo è qualcosa che scorre troppo in fretta e non si lascia arrestare e il film Il tempo passa come un leone ruggente (Die Zeit Vergeht Ein Brüllender Löwe) rappresenta proprio il tentativo di catturare, come scrive Platone, “l’immagine mobile dell’eternità”.

Un cineasta di 38 anni e un quarto, celibe, autonomo e con una condotta di vita relativamente ordinaria, improvvisamente subisce una crisi creativa ed esistenziale. Proprio a metà della sua aspettativa di vita statistica, la sua esistenza sembra accelerare e stare ferma allo stesso tempo. Niente sembra funzionare. Diagnosi medica: cronofobia, ovvero la paura del passare del tempo. Per guarire bisogna trovare un modo di rallentare un momento che per definizione è indefinito. Il cineasta di cui sopra è Philipp Hartmann, il regista de Il tempo è come un leone ruggente.

L’aspettativa di vita media di un tedesco nato nel 1972 è di 76 anni e mezzo e il Il tempo passa come un leone ruggente ha una durata di 76 minuti e mezzo esatti: Il tempo passa come un leone ruggentene deduciamo, dunque, che un minuto di film corrisponde ad un anno di vita e seguendo i tre atti che compongono una drammaturgia, abbiamo che il primo termina a minuto diciannove e dà una missione, una svolta, alla storia. Davanti a uno scenario così presentato, la nostra percezione del tempo cambia e cambia di conseguenza l’approccio verso il documentario. Arriva il momento della riflessione, quello che ci pone davanti ad un interrogativo inevitabile: temiamo il passare del tempo? Molti di noi sì. Ma cos’è il tempo? Comprenderlo è un’impresa difficile e quando pensiamo di essere raggiunti ad una conclusione plausibile, altre possibilità, come finestre, si aprono davanti a noi. Una sera Philipp Hartmann cattura in un video una conversazione fra due suoi amici ubriachi, il fisico Achim e il pragmatico Steffen: l’oggetto della discussione è il “Paradosso dei fratelli gemelli”. Di nuovo la definizione del tempo è in crisi. Sebbene sappiamo che la terra oggi giri più lentamente dei secondi atomici determinati dai nostri orologi, resta ancora Il tempo passa come un leone ruggenteun mistero l’orologio che regola la mente di una persona affetta da Alzheimer: Christiane è una donna la quale non ricorda neanche il suo nome, sa solo di aver avuto un’idea, l’idea di essere sempre in movimento. Christiane non vuole avere rapporti con gli altri pazienti. È come una bambina i cui ricordi sono tutti confusi e sbagliati.  “Può essere un film strumento di guarigione? Contro la paura del trascorrere del tempo? Quella che io nel film drammaturgicamente e patologicamente definisco, non senza esagerazione, cronofobia si potrebbe anche chiamare crisi di mezz’età o sindrome da esaurimento. O più semplicemente la preoccupazione per il senso delle nostre vite. Da qui la sensazione che probabilmente tutti conoscono. Il tempo ci domina perché in esso, in sempre più spesse sequenze, si viene travolti e addirittura trasformati. E allo stesso tempo sembra che trascorra sempre più veloce e implacabile. Senza sosta, lo spazio-tempo che abbiamo ancora davanti a noi si riduce. L’ora scorre in discesa. Il tempo passa come un leone ruggente”, dichiara Philipp Hartmann.

Mescolando pensieri personali a storie di fiction in cui si alternano diversi formati di immagine (16 mm, HD e DV Video, fotografie, super 8 e immagini di una handycam) realizzati in varie parti del mondo, Il tempo passa come un leone ruggente, non ha un messaggio e nessuna spiegazione per la quale lo spettatore deve essere guidato: è proprio a lui che viene chiesto di esercitare la parte attiva, portando con sé le proprie esperienze e situazioni di vita.

 su Lineadiretta24.it

Il tempo passa come un leone ruggente su FilmTv

C’è chi sostiene che il tedesco sia la lingua della filosofia. Lo dimostrano affermazioni come l’hegeliano «Wesen ist was gewesen ist» («L’essere è ciò che è stato»), dove il rivelarsi dell’Essere dall’Essere Stato è, prima ancora che constatazione concettuale, questione di grafia e grammatica. È forse per questo che alcuni dei registi più filosofici sono tedeschi. Hartmann, classe 1972, non è Herzog (gli manca quella capacità di rendere eloquenti le mute cose, di stanare il reale dietro l’apparenza), ma il suo primo lungometraggio, il cui titolo è un proverbio spesso ripetuto dalla nonna, si ammanta di una qualità filosofica non solo per le riflessioni sul Tempo, espresse in voce over o emerse da conversazioni con amici, ma perché queste si accompagnano a sequenze in cui lo scorrere del Tempo si fa oggettivo o la circolarità di kronos diventa movimento circolare della macchina da presa per immortalare una distesa arida simile a ragnatela. Lo spunto è dato dalla volontà di combattere la cronofobia che aggredisce il regista allo scoccare dei suoi «38 anni e un quarto», cioè nel «mezzo del cammin» visto che, secondo la statistica, ha una speranza di vita di 76 anni e mezzo (e 76’30’’ esatti dura il film). Il risultato è un giustapporsi di teorie, fotografie, epifanie, deserti di sale, padri, api, cani, sedie. C’è anche un cimitero di treni nelle Ande, dove «lo unico que pasa es el Tiempo».

CLAUDIO BARTOLINI (su FilmTv)

Stimmen zum Film / more texts

Una de las mejores películas de mi vida! (María José Ferrel Solar)


Auf dass der Löwe niemals vom Ast rutsche, aber behauptet, es läge am Jagdfieber! (Piet Klocke)


Die Zeit als Gegenstand eines Films ist ein unmögliches Unterfangen. Aber Hartmanns ebenso schlaue wie witzige, analytische wie spekulative Herangehensweise erfindet Wege und Bilder, Argumente und Anmutungen, die von der Zeit erzählen. So erzählen, als wäre sie ein seltsames Tier, ein Lufthauch, ein Raum, ein Gedicht. … Ein höchst vergnüglicher, lehrreicher, fantastischer und am Ende doch möglicher Essay über das Unmögliche. Ein Edelstein. (Hans Hurch, Viennale)


Eine sehr schöne, irgendwie „helle“ Arbeit – wobei man die Idee bekommt, die Helligkeit sei dir von deinem Vaters „vererbt“ worden. Es ist ja seltsam: Gewöhnlich denken wir, dass unsere Kindheitserinnerungen  aus irgendeinem „Dunkel“ hervordringen und dass wir sie dann daraus an den Tag zerren. Aber in deinem Film beschleicht einen manchmal das Gefühl, sie gewinne Konturen nur in einen sonderbarem Zustand der Blendung, in dem wir uns allezeit befinden – geblendet nämlich von all den Ereignissen der Gegenwart und wie sie sich permanent mit der jüngsten Vergangenheit überlagern und dabei irgendwie auch verschmieren, zu einem Zustand extremer, im Grunde unkontrollierbarer Überbelichtung, könnte man im Filmjargon vielleicht sagen. Jedenfalls sehr, sehr anregend, dein Film —  (Klaus Wyborny)


Ein mäandernder Film, der sein Thema elegant umkreist und sich dabei stets bewusst ist, dass es sich nicht fixieren lässt… Was den Film so angenehm macht, ist diese Stimmung neugieriger Melancholie. Der unmögliche Wunsch, der aus ihm spricht: Die Zeit unterbrechen, das Kontinuum der Geschichte sprengen. (FILMDIENST 21/2014)


Dem Wesen der Zeit möchte Philipp Hartmann nachspüren. … Sie zu verstehen, vielleicht sogar zu bremsen, schließt er aber gleich aus. (Süddeutsche Zeitung) 


Tienes imagenes y metaforas muy hermosas y siento que el planteamiento de tu pelicula es honesto y es una ventanita que nos permite a los espectadores acercarnos a ti. Tuve la sensacion de que te conocia y que me reconocia a traves de algunos detalles a lo largo de la pelicula. Fue como retomar el hilo con un antiguo y nuevo amigo, fue una sensacion extraña y agradable. (Katina Laznik)


Como si estuviese viendo algo sobre un viejo amigo, que me sigue, que siempre esta, pero que nunca me detuve a verlo realmente. (Titi Schnicer)


 

 

Resenha da CINÉTICA por Fábio Andrade

O Tempo Passa como um Leão que Ruge (Die Zeit vergeht wie ein brüllender Löwe), de Philipp Hartmann (Alemanha, 2013)

junho 2, 2014 em Coberturas dos festivais, Em Campo, Fábio Andrade

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As muitas faces de um rosto
por Fábio Andrade

O Tempo Passa como um Leão que Ruge é um filme de monumental ambição. Essa ambição se manifesta logo na escolha do assunto: um documentário sobre o tempo – o mesmo tempo que povoa bibliotecas inteiras de filosofia e que é tema e agente onipresente na história do cinema, em grandes filmes tão distintos quanto Hiroshima Mon Amour (1959), de Alain Resnais, Millennium Mambo (2001), de Hou Hsiao-hsien e O Feitiço do Tempo (1993), de Harold Ramis.

Se, a princípio, a monumentalidade do assunto é inevitavelmente intimidadora, a abordagem de Philipp Hartmann busca refúgio em uma série de critérios objetivos, matemáticos até: o diretor decide realizar o filme quando percebe estar se aproximando da metade de sua expectativa de vida, e cria para si a restrição de que a duração do filme tenha um minuto para cada ano dessa mesma expectativa (76,5). Diante da própria natureza do objeto investigado, esssa abordagem estritamente estruturalista do tempo como tema e dispositivo cinematográfico parece quase natural. Porém, após um breve prólogo que preenche a tela do cinema com fotografias parcialmente veladas da infância do diretor (e que, junto à narração em voz over, anuncia que a apreensão do tempo passará, necessariamente, pela subjetividade auto-evidente da primeira pessoa do singular), tiradas por seu falecido pai, essa aparente objetividade é exposta em seus limites. Por um protocolo bastante rígido visualmente, que traz à lembrança os curtas recentes de Rafael Urban (Ovos de Dinossauro na Sala de Estar e A que Deve a Honra da Ilustre Visita Este Simples Marquês, em parceria com Terence Keller), Hartmann entrevista um profissional que trabalha em uma espécie de indústria do tempo, um laboratório de relógios atômicos que exporta a marcação do tempo para vários países do mundo, e ali descobre que o tempo é, de fato, irregular. A cada 18 meses, a rotação terrestre se atrasa um segundo em relação ao tempo científico dos relógios atômicos, e os cientistas adicionam um segundo falso para compensar esta diferença.

Essa descoberta é um pequeno achado conceitual que Philipp Hartmann usa como agente contaminador da estrutura de seu filme. Afinal, se o tempo é cientificamente irregular, qualquer abordagem baseada em um rigor absolutamente científico está (cientificamente) fadada ao fracasso. O Tempo Passa como um Leão que Ruge rapidamente abandona este falso princípio objetivo, e passa a se dedicar às inúmeras possibilidades artísticas de expressar uma apreensão do tempo que é naturalmente múltipla, e que se permite dançar ao redor das grades do tempo sem nunca deixar de tê-las como referencial – como músicos adicionam fluidez a uma performance se permitindo escapar momentaneamente da tirania de um metrônomo.

O caminho para isso, porém, não será menos rigoroso. O que temos aqui é uma espécie de processo heideggeriano da aplicação de um mesmo conceito em suas mais variadas acepções e encarnações. Philipp Hartmann parte de uma vivência fisicamente experimentada (a percepção de que está chegando à metade de sua expectativa de vida, e todas as crises e impulsos que essa certeza de morte é capaz de produzir), retira dela um conceito filosófico de unidade absolutamente singular (o tempo), e em seguida devolve-o à vida, aplicando-o a experiências também físicas da ação desse mesmo conceito, e de como ele transforma a experiência vivida. A partir de um desenho aparentemente rígido, O Tempo Passa como um Leão que Ruge cria uma coleção de aplicações artísticas de um mesmo conceito que impressiona pela combinação de um rigor ontológico com uma extrema variedade e liberdade associativas – por vezes se aproximando de outro filme também em exibição neste Olhar de Cinema, e igualmente contaminado pela inevitabilidade do tempo: E Agora? Lembra-me, de Joaquim Pinto. Essa é uma escolha de extrema felicidade, pois, se o tempo é naturalmente múltiplo e irregular, ele só poderá ser evocado por uma obra de arte se ela preservar essa mesma multiplicidade.

Em uma coleção que prima pela irregularidade, importa menos que algumas partes sejam mais fortes que outras, e mais que todas elas convivam em um mesmo filme, e acrescentem a um entendimento que desvia de qualquer tentação de pureza. O tempo, afinal, não é somente um conceito, mas também uma sensação física, um agente emocional, um processo orgânico, uma invenção da cultura, e o filme sabe que a aproximação da essência deste conceito só é possível se todos esses diferentes caminhos forem trilhados. Entre especulações filosóficas, jogos ilusionistas à Méliès, memórias pessoais, dobras metalingüísticas, investigações ontológicas acerca da natureza da imagem e breves esquetes de ficção, Philipp Hartmann acumula diferentes apreensões parciais da ação do tempo que, embora muito fortemente conduzidas pela narração em voz over e pelas obstruções criativas que o diretor impõe a si mesmo, driblam os atalhos sem saída da causa-e-efeito almejada por um raciocínio estritamente lógico.

A partir deste acúmulo, o que começa como um conceito frio, científico, objetivo, termina por revelar uma imagem (na compreensão goetheana do termo que tenta dar conta da sensação de se visualizar o todo de uma idéia) extraordinariamente complexa de sua própria investigação conceitual, mas que em momento algum se furta das possibilidades criativas da leveza, das possibilidades de conexão das convenções dramatúrgicas, da pessoalidade que distorce e prisma uma experiência de mundo. Justamente por isso, o filme oscila entre momentos de extrema beleza e síntese – os relógios desenhados pelos pacientes de Alzheimer; o depoimento da avó do diretor, próximo ao final do filme; o uso das fotografias dos pais – e especulações que nem sempre chegam onde almejam, mas que fazem, igualmente, parte dessa imagem mais ampla que não é somente bela ou feia, dura ou mole, quente ou fria, mas que encontra expressividade justamente na concomitância de todos esses entendimentos e sensações ao longo de sua dúbia e débil duração. A beleza de O Tempo Passa como um Leão que Ruge é fruto disforme de uma postura artística ao mesmo tempo resignada e ativa, movida pela certeza de que as dúvidas do caminho não são mais nem menos importantes que a inevitabilidade do destino final.

(Fábio Andrade, revista CINÉTICA: http://revistacinetica.com.br/home/o-tempo-passa-como-um-leao-que-ruge-die-zeit-vergeht-wie-ein-brullender-lowe-de-philipp-hartmann-alemanha-2013/ )

 

Resenha em „Simplista na Pista“, Curitiba

O TEMPO PASSA COMO UM LEÃO QUE RUGE
(Die Zeit Vergeht Wie Ein Brüllender Löwe, Alemanha, 2013) Direção: Philipp Hartmann

Em 1984, um americano matou oito pessoas depois de passar 57 horas acordado pensando numa forma de desacelerar o tempo. Numa tribo do Japão, no século XIX, os velhos que completassem 70 anos deveriam subir a montanha e esperar a morte. Na Alemanha, a expectativa de vida é de 76 anos e meio.

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Perto de completar 38 anos (e três meses), o documentarista alemão Philipp Hartmann constatou estar chegando à metade de sua vida, segundo as estatísticas. Como trabalhar com a ansiedade de sentir o próprio tempo se esvaindo? Sofrendo de cronofobia (esse tal medo da passagem do tempo), Hartmann cria uma obra excepcional com “O Tempo Passa Como um Leão Que Ruge”.

Através de análise pessoal, filosófica, física e existencial, o diretor consegue discutir como o tempo influencia (e é influenciado) por todos. Afinal, o que é 1 segundo? É sempre igual? A vida é feita duma sucessão de segundos ou de momentos?

Perto do final do filme, uma personagem que sofre de perda de memória mostra seu diário, onde conta suas atividades dia a dia. Ao relê-las, nota que nada especial lhe acontece na maioria dos seus dias. São situações não memoráveis; então, para que ter memória? Ou será que exatamente por serem rotineiras é que elas se tornam especiais?

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O filme também funciona como uma carta de amor ao pai e ao tempo que eles passaram juntos. Contrariando as estatísticas, seu pai faleceu aos 61 anos. Foi ele quem presenteou o jovem Hartmann, aos 10 anos, com sua primeira câmera. Pouco depois veio a primeira filmadora e o feeling documental.

Logo nos créditos iniciais, assistimos fotos antigas tiradas por seu pai. É uma coleção das primeiras fotos de cada rolo de filme. Aquelas que queimam do lado esquerdo e que todo mundo descarta. Elas não registram “nada”, pois o evento fotografado sempre começa no registro seguinte. O diretor encara, lindamente, como fotos de um tempo antes do tempo.

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Também digno de nota, é uma sequência com a sobrinha do diretor. Aos 3 anos, ela é capaz de lembrar dos dinossauros, mas não de seus primeiros anos. Isso porque as crianças começam a guardar as próprias memórias a partir dos 3-4 anos. Ela vai se lembrar dessa gravação? O filme, com duração exata de 76 minutos e meio (um minuto para cada ano da expectativa de vida alemã) é repleto desses questionamentos. Ele não pretende ser uma obra definitiva sobre o tempo, pois sabe que esse é um conceito abstrato e subjetivo. Porém, incita reflexão sobre nós mesmos.

A nossa vida é pautada pelo tempo: aos 6 anos começamos ir à escola, aos 16 podemos votar, aos 18 dirigir. É como se o tempo fosse igual para todos. Assim, O Tempo Passa Como um Leão que Ruge se mostra como uma poesia filmada que te faz lembrar que um dia você também irá subir sua montanha para morrer sozinho. O que você fará com o tempo que você tem?

(Diego Denck em „Simplista na Pista“:

http://www.simplistanapista.com/2014/05/31/olhar-de-cinema-uma-questao-de-tempo/ )

 

„…one of the wittiest and most innovative documentaries of the year“ – Article about The Art of the Real-Series

Time Goes by Like a Roaring Lion is a film built to mimic the lifeline of its filmmaker, who has matched its running time to his German male life expectancy. Bouncing between anecdotes related to chronophobia (the fear of time’s passing), sequences in the salt flats of Bolivia where time and space seem to briefly cease and autobiographical detail, it is one of the wittiest and most innovative documentaries of the year.
Daniel Walber on nonfics.com

Article about The Art of the Real in The L Magazine

… An intensely personal and associative visual poem, this movie looks at time and our relationship to it, achieving an often ineffable effect. Director Hartmann takes as his jumping off point his own middle-age status and the chronophobia it inspires to try and process both tangentially and finitely his past and the experiences that shaped his understanding of it. For each year of his life Hartmann presents a corresponding analog: memory (his own or someone else’s); an existential theorem; and fascinating and revelatory historical contexts of people dealing with the strain of mortality. The free-form approach culminates in a resoundingly coherent closing sequence in which Hartmann, riding a mountainside chairlift, films his undulating shadow as it zooms in and out against nature below. Viewers ruminate on all that Hartmann has presented and focus, for a time, on their own mortality. …

(John Oursler in The L Magazine)

see whole article: http://www.thelmagazine.com/newyork/the-art-of-the-real/Content?oid=2349278

 

Article about The Art of the Real on mubi.com

… Philipp Hartmann’s Time Goes by Like a Roaring Lion is obsessed with lost narratives. What are the blanched spots in family portraits, Hartmann asks, if not the “gaps in memory” that need filling? Harping on about how precious seconds are lost every other year, the German filmmaker is unsettled by the idea that his little daughter in the future won’t remember the conversation they just had about dinosaurs. A cemetery of locomotives in the Andes, a visit to a clockmaker’s widow, an anecdote about a Manhattan man who obsessively recorded every passing minute before turning suicidal: all part of a drolly associative argument about confronting (and, perhaps, shrugging off) the shadow of mortality. …

(Fernando F. Croce on mubi.com )

see whole article: https://mubi.com/notebook/posts/film-society-lincoln-centers-the-art-of-the-real-2014