C’è chi sostiene che il tedesco sia la lingua della filosofia. Lo dimostrano affermazioni come l’hegeliano «Wesen ist was gewesen ist» («L’essere è ciò che è stato»), dove il rivelarsi dell’Essere dall’Essere Stato è, prima ancora che constatazione concettuale, questione di grafia e grammatica. È forse per questo che alcuni dei registi più filosofici sono tedeschi. Hartmann, classe 1972, non è Herzog (gli manca quella capacità di rendere eloquenti le mute cose, di stanare il reale dietro l’apparenza), ma il suo primo lungometraggio, il cui titolo è un proverbio spesso ripetuto dalla nonna, si ammanta di una qualità filosofica non solo per le riflessioni sul Tempo, espresse in voce over o emerse da conversazioni con amici, ma perché queste si accompagnano a sequenze in cui lo scorrere del Tempo si fa oggettivo o la circolarità di kronos diventa movimento circolare della macchina da presa per immortalare una distesa arida simile a ragnatela. Lo spunto è dato dalla volontà di combattere la cronofobia che aggredisce il regista allo scoccare dei suoi «38 anni e un quarto», cioè nel «mezzo del cammin» visto che, secondo la statistica, ha una speranza di vita di 76 anni e mezzo (e 76’30’’ esatti dura il film). Il risultato è un giustapporsi di teorie, fotografie, epifanie, deserti di sale, padri, api, cani, sedie. C’è anche un cimitero di treni nelle Ande, dove «lo unico que pasa es el Tiempo».
CLAUDIO BARTOLINI (su FilmTv)